Capitalismo e frustrazione

Capitalismo e frustrazione

Questo è ciò che chiamo un articolo di sfogo, di denuncia.

La produzione sembra essere il fulcro dell’esistenza. Quaranta ore settimanali che siamo costretti a trascorrere al chiuso, con persone che non ci siamo scelti.

A cosa serve sfogarsi? Concretamente a niente, vero? Eppure per me è un processo di disintossicazione. Cerco di non giudicare ciò che mi viene in mente, sono solo pensieri.

La scrittura mi è sempre piaciuta per questo, perché in un certo senso significa dare vita a ciò che si ha dentro, poterlo osservare così com’è, senza altri scopi se non quello di lasciare andare qualcosa che c’è e che non vuole uscire perché fa paura.

Questa che riporto qui sotto è il mio flusso di coscienza relativo alla mia esperienza di qualche anno fa come apprendista, in una realtà che si inserisce nel contesto più ampio del capitalismo odierno, che obbliga tutti a correre, a produrre, ad affrettarsi: concorrenza, profitto, ansia.

La giornata tipo di molti lavoratori

Mi alzo, maledicendo la sveglia. Gli occhi mi fanno quasi male dal sonno. Mi sento stanca, stordita, come se non fossi pronta. Per fortuna la sensazione delle occhiaie doloranti lascia piano piano il posto all’ energia vitale.

Mi ritaglio del tempo per me stessa di prima mattina. Faccio un po’ di esercizio fisico, oppure mi esercito con una lingua straniera, faccio un esercizio di rilassamento, a volte scrivo qualche pensiero sul mio diario.

Parto, metto la mia musica preferita e mi immergo nel traffico mattutino. Si sta bene, il sole illumina gli alberi che danno sulla strada. Ogni tanto sogno di poter cambiare tragitto, senza avvertire nessuno, e poter andare in altri luoghi, con il venticello mattutino che mi accarezza.

La giornata inizia, alienante, piena di persone che non hanno tempo di starmi dietro.
Se chiedo qualcosa che non ho capito, probabilmente per loro risulterò un peso.
Meglio stare zitta e occuparsi delle scartoffie. Mi occupo delle mie perlopiù noiose mansioni, mi prendo le critiche su ciò che sbaglio.

Guardo l’orologio, avrei bisogno di una pausa; il telefono squilla ma non mi va di rispondere, vorrei solo che smettesse subito di fare rumore.

Inserisco dati nel gestionale. Continuo a inserire dati.

Il tempo che passa lento

Le prime due ore non sono neanche male, ma otto sono decisamente troppe. Ogni tanto capita qualche diversivo, qualche mansione più stimolante, che mi fa sentire utile, ma in fin dei conti sono sempre i superiori a decidere quali saranno i miei compiti.

In alcuni giorni non proferisco parola con quasi nessuno, ma continuo a inserire dati, interrotta solo dal telefono. Avverto poca passione in ciò che faccio, poco entusiasmo. Mi sembra di sprecare il mio tempo, ogni errore mi sembra l’ennesima prova di non valere abbastanza.

Non c’è tempo per insegnare il mestiere: lo devi imparare da solo

Sento l’impulso varie volte di chiedere chiarimenti su qualcosa che non ho chiaro, ma mi blocco e mi autocensuro.

Vado avanti, sperando che non accadano cose impreviste che mi mettano a disagio, come gli urli in faccia da parte del titolare.

Urla agli operai che sono troppo lenti, mi urla che non sono utile in azienda, che dovrebbe prendere un’altra ragazza. Mi dice che devo essere veloce, sono troppo lenta. Mi ordina di portargli un caffè. Mortificata, penso a tutto il tempo che vorrei dedicare a me stessa, penso al fatto che forse quello non è il mio posto.

Stremata, arrivo finalmente al pomeriggio. Torno a casa, mi sento stanca, con un po’ di impegno riesco a evitare di abbuffarmi per dar sfogo alla frustrazione. Il cibo è lì, a portata di mano, pronto a farmi dimenticare la frustrazione di non riuscire a esprimermi.

Tutto questo genera anche senso di colpa ed esaurimento

Quante energie rimangono dopo aver lavorato in un ambiente tossico?

Cerco di volermi bene.

Il tempo è limitato, è quasi ora di andare a letto. Il giorno dopo ricomincia tutto, e il giorno dopo ancora ricomincia tutto. E ancora, ancora.

Arriva il fine settimana e forse, se sono riuscita a mettere dei confini tra i miei bisogni e quelli degli altri (ma non è scontato), mi prenderò del tempo per me stessa, per ricaricarmi, sperando che la settimana dopo sia migliore. La domenica sera, sempre se sarò riuscita a ricaricarmi, andrò a letto rilassata.

Il giorno dopo tutto riparte.

Ci sono giorni in cui avverto già di prima mattina la voglia di piangere. Altre volte mi rendo conto di sentirmi inadeguata, disinteressata a ciò che sto facendo.

Se sei l’ultima arrivata, ti muovi nella realtà aziendale con titubanza e timore. Quel senso di inadeguatezza riaffiora e senti che ti dice: “Non ce la fai. Non ci riesci. Non sei abbastanza sveglia”.

Chiedersi se sia questa la vita che vogliamo

Eppure, in fondo, io l’ho sempre saputo che il mio lavoro ideale non era un lavoro d’ufficio, ad occuparmi di scartoffie. A me piaceva molto l’idea di poter rendere gli altri felici, oppure di esprimere la mia creatività.

Mi sento come se fossi in un pianeta di marziani che non hanno sentimenti, intrappolata in questa realtà che non mi appartiene.

E non so come uscirne, è come se ci fosse un tunnel davanti a me: io lo vedo, ma so che è lungo e non ho la certezza di trovare qualcosa di migliore dopo che lo avrò attraversato.

Così rimango in questo mondo di alieni, alienante. Un pesce fuor d’acqua, una di quelle che viene considerata rincoglionita, svampita, con la testa tra le nuvole.

Io ci ho provato ad essere come gli altri, mi sono impegnata. Eppure a volte si fa strada il pensiero che io abbia sbagliato tutto. Non ho seguito ciò che mi faceva battere il cuore, ho preferito adeguarmi alle aspettative di non so chi.

Si tratta di uno sfogo, non tutti gli ambienti di lavoro sono così

Questo è un articolo di sfogo per tutte quelle persone che, almeno in un periodo della loro vita, si sono sentite incapaci, nel posto sbagliato, frustrate, mummificate in un ruolo che non gli apparteneva. Nel mio caso specifico, si tratta di una esperienza passata (per fortuna), ma so che purtroppo molti ci stanno passando adesso.

C’è speranza per tutti, perché la speranza inizia davvero da dentro. E mi sento meglio quando penso che non sono il mio lavoro, sono anche altro. Gli altri non lo sanno cosa ho dentro, vedono una piccolissima parte di me, forse la parte ‘sbagliata’, quella che mi fa apparire inadatta, incapace.

Se volete condividere le vostre esperienze, scrivetemi nei commenti o alla mail chiara@pioggianellanotte.com. Sarò felice di leggervi.

Chiara

Senso di colpa ed esaurimento al lavoro

Senso di colpa ed esaurimento al lavoro

Quella che state per leggere è una mia esperienza legata all’esaurimento sul posto di lavoro.

Quanti di voi hanno preferito a volte recarsi al lavoro pur non sentendosi bene? Quanti sono rimasti nello stesso posto senza avere il coraggio di cambiare, anche a causa del senso di colpa?

La mia esperienza con il senso di colpa al lavoro

Personalmente mi sentivo come se avessi costruito una gabbia e mi ci fossi infilata dentro chiudendo la porta e dimenticandomi di averne le chiavi.

Lavoravo fino allo sfinimento. Più lavoravo con fretta e tensione, più mi sentivo esausta e sentivo di non fare abbastanza; i colleghi lamentavano la mia sbadataggine e le mie dimenticanze, io mi sentivo persa nella confusione delle mille scartoffie.

Ero sull’orlo della crisi. La sera prendevo di corsa il treno e dopo cena mi buttavo nel letto senza forze. La mattina mi alzavo già preoccupata per la giornata che avrei dovuto passare, tra colleghi indifferenti e un capo autoritario. Andare avanti in quel modo stava diventando un incubo.

Il mio corpo ad un certo punto disse basta, si ammalò. Cominciai a soffrire di una forma di gastrite nervosa che mi faceva provare delle fitte brucianti allo stomaco, oltre alla nausea.

Ma forse non stavo poi così male, così l’indomani mi recai al lavoro, un po’ sofferente. Del resto, mi ero purtroppo abituata a non sentirmi in forma, perciò qualche dolorino in più non mi spaventava più di tanto. Solo che, grazie anche all’accumulo di nervosismo, le fitte ogni tanto aumentavano di intensità.

“Beh, aumentano di intensità solo a volte, perciò non dovrei preoccuparmi”, pensavo.
Ma forse avrei dovuto.

Le persone intorno a me mi ammonivano dicendomi di ascoltare i campanelli di allarme del mio corpo, di fermarmi e riflettere se fosse il caso di mettermi in malattia.

“In malattia? No…penseranno che sono una lavativa…Non sto poi così male. Poi al mio ritorno dovrò affrontare il lavoro arretrato, e sono già in difficoltà con il lavoro normale.”

Mi angustiavo, rimuginando su ciò che gli altri avrebbero pensato e detto di me in mia assenza. Si sarebbero lamentati sicuramente di tutti i miei sbagli e dei miei atteggiamenti, così come facevano in assenza di altri colleghi.

Il mostro del senso di colpa si ingigantiva sempre di più ed io non riuscivo a distinguere i miei reali bisogni da quelli degli altri.

Ecco quindi i miei tre consigli per affrontare il senso di colpa al lavoro. Metterli in pratica mi ha aiutata a prendermi il diritto di rimettermi in sesto e di non sentirmi in colpa per questo. Per alcuni è scontato, per altri (me compresa) non lo è affatto.

Mettere nero su bianco i pro e i contro delle scelte che si prospettano davanti.

Il mio problema era che mi focalizzavo solo sui lati negativi di entrambe le scelte, così non riuscivo mai a prendere la decisione per me migliore.

Mettere al centro i propri bisogni.

Non pensare a ciò che diranno gli altri. Agli altri, soprattutto se sono sempre stati ostili, non andrà mai bene niente. Pensa piuttosto a ciò che ti aspetta se non segui te stesso/a: l’inferno.

Uscire il più possibile dalla propria testa.

Cucinare, scrivere, disegnare, giocare, aggiustare oggetti, ballare e tante altre attività hanno il potere di interrompere il circolo vizioso dei pensieri negativi. Bisogna solo fare uno sforzo iniziale per intraprendere quelle azioni che ci faranno sicuramente stare bene.

Lascio qui il link al canale YouTube del Dott. Francesco Catona, uno psicoterapeuta che ci ha purtroppo lasciati troppo presto ma che ha aiutato tante persone.

E voi avete mai indugiato a causa del senso di colpa, arrivando fino all’esaurimento? Raccontatemi la vostra storia!

Chiara

La pornografia è dannosa?

La pornografia è dannosa?

Mi sono spesso chiesta, in passato, se la pornografia potesse diventare dannosa per le relazioni amorose o per chi ne fruisce. Ecco, io credo che non si possa parlare di dannosità a prescindere, senza contestualizzarne l’utilizzo.

Di per sé, la pornografia rappresenta la possibilità di stimolare le nostre fantasie sessuali. Se ritengo che sia fondamentale usufruire del porno per prendersi cura del proprio piacere in solitudine? Beh, credo che questo non sia l’unico modo possibile, ma sicuramente è quello piu’ veloce e semplice.

Le cause che portano a utilizzare spesso la pornografia.

Centinaia di milioni di visualizzazioni al giorno non sono poche. In una società come la nostra, in cui siamo abituati a soddisfare il prima possibile i nostri impulsi, la pornografia offre davvero una grande tentazione. É disponibile gratuitamente con pochi click, facilmente accessibile ad ogni orario e perciò invitante: si offre nei momenti di noia e quando ricerchiamo uno stimolo per riempire il vuoto, in momenti in cui abbiamo semplicemente voglia di prenderci cura di noi, oppure quando sentiamo il bisogno di lasciare andare la tensione dopo una giornata particolarmente impegnativa. Lei è lì, disponibile, ci offre tutto e subito. Tuttavia, credo che nella pornografia siano nascosti dei potenziali pericoli. Ecco perché si può fruirne, ma occorre farlo con consapevolezza:

1. Il pericolo della dipendenza.

Essendo disponibile ogni volta che ne sentiamo l’impulso, c’è il pericolo che il suo utilizzo diventi un’abitudine costante, e che l’abitudine costante diventi una qualche forma di dipendenza, portandoci magari a dare meno spazio a quelle azioni creative e costruttive che rendono la vita preziosa e piena di piaceri semplici. Non è assolutamente detto che accada, però un utilizzo inconsapevole dettato dall’ansia di provare piacere immediato può portare anche a questo (così come ad altre dipendenze).

2. Il pericolo della distorsione della sessualità.

Siamo tutti consapevoli del fatto che la sessualità rappresentata nella pornografia mostri delle fantasie e che si tratti comunque di recitazione, di attori che fanno parte di una ricca industria e che svolgono il proprio lavoro secondo delle direttive (dalle quali viene influenzato anche il porno amatoriale). In molti casi, la pornografia può contribuire a plasmare e influenzare – anche inconsciamente – le nostre preferenze, portandoci a sminuire la sessualità reale e preferendo quella virtuale, pornografica, a scapito delle nostre relazioni. Ci tengo a precisare, inoltre, che mi sto riferendo alla pornografia creata da adulti consenzienti, il che esclude chiaramente tutto ciò che riguarda l’abuso di minori e animali.

Per concludere, aggiungerei che la considero come una catena di fast food: non penso che la pornografia sia di per sé sana, ma credo che la vita a volte abbia anche bisogno di fantasie sessuali, di momenti in cui si dà sfogo alla nostra parte piu’ istintiva. Sicuramente è possibile fantasticare senza ricorrervi, ma l’ industria del porno riesce a soddisfare in pochissimo tempo ogni tipo di fantasia, spesso rappresentando rapporti sessuali slegati dalla dimensione erotica (e, diciamocelo, piuttosto squallidi e ripetitivi). Si tratta di un’ idea di sesso come pura performance e, cosa non trascurabile, presentato spesso da un punto di vista maschile.

Voi cosa ne pensate in generale, al di là del vostro personale approccio alla pornografia?

Chiara

Autostima sotto i piedi: come uscirne

Autostima sotto i piedi: come uscirne

“Dai, domani comincia un’altra bella settimana! Immagino tu non veda l’ora, eh!”

Poi, con un’espressione sorpresa, mi chiede: “Ho detto qualcosa di sbagliato? Ma stai bene?”

Con il battito del cuore accelerato e la voce tremolante rispondo che voglio essere lasciata in pace. E vorrei piangere come una bambina, sbraitare, vorrei dirgli che tutti loro non possono capire, forse non ricordano cosa significhi sentirsi inadeguati, inadatti.

La sensazione di sentirsi incapaci, quel batticuore che ti prende quando aspetti di fare una brutta figura davanti a un cliente, o quando speri che lui non si accorga di un errore che sai di aver fatto. Guardi le tue mani tremanti e cerchi di farle smettere, ma il tuo corpo rincara la dose e ora ti fa tremare anche le gambe. Ti senti sudato, ma fuori fa freddo, com’è possibile?

Percepisci l’odore acidulo che emani e ad un tratto ti incanti, perdi la concentrazione, non riesci ad andare avanti, se non scattosamente, sconclusionatamente, facendo ovviamente altri errori.
Torni a casa e tutto ciò che hai voglia di fare è sdraiarti nel letto.

Non è affatto semplice descrivere cosa voglia dire sentire costantemente i nervi tesi, quando le tue energie preziose vengono risucchiate da un’attività che non ti dà piacere, che non ti fa sentire appagato, e intorno a te senti freddo, anche se ci sono venti gradi. Nessuno ha tempo per incoraggiarti, perché sono impegnati a correre di qua e di là.

Ma come se ne esce?

Vorrei raccontare ciò che mi ha aiutata a “danzare sotto la pioggia”, invece di aspettare che smettesse di piovere.

Come disse il dott. Catona durante una sua conferenza:
“Non hai niente sotto controllo”.

Per conoscere questo meraviglioso psicoterapeuta, visita il suo canale YouTube https://www.youtube.com/c/FrancescoCatonaPsicoterapeuta

Ho parlato di lui anche in questo articolo: In ricordo di Francesco Catona

Se da un lato il fatto di non avere il controllo ci fa stare sempre all’erta, d’altra parte è vero anche il contrario, perché se non possiamo controllare né la reazione degli altri, né gli avvenimenti, allora possiamo davvero mollare la presa e occuparci unicamente di agire.

Io, ad esempio, a un certo punto mi sono resa conto che c’era un denominatore comune nelle mie relazioni insoddisfacenti con gli altri: la mancanza di assertività.

Mi sono accorta che spesso, quando si intraprende un cammino di crescita personale e di consapevolezza, si instaura un circolo virtuoso e si migliora automaticamente in più campi.

In particolar modo:
– molto legata all’assertività è l’autostima;
– il rilassamento e una dieta equilibrata aiutano a sentirsi più energici e dunque a intraprendere altri cambiamenti positivi che altrimenti non avremmo la forza di intraprendere
.

Semplificando, secondo me quando si vive una situazione che distrugge la nostra autostima, è bene iniziare a:

Compensare ciò che non ci piace con ciò che ci entusiasma.

Il circolo vizioso che spesso si instaura è stato molte volte descritto dall’immagine di un criceto che corre all’impazzata nella ruota; non lasciare che le tue energie finiscano, non lasciarti andare alla passività. Prenditi tutti i giorni dei momenti per sperimentare la gioia, soprattutto se si tratta di azioni costruttive e non passive (ma ben vengano anche i film e le serie tv, se ti fanno stare bene e ti appassionano). Programma del tempo solo per te stesso.

Prendere in considerazione il fatto che per stare meglio serve un po’ di sana fatica.

Credo sia una fatica positiva, che poi ti ripaga.

– Per migliorare la conoscenza di una lingua straniera dovrai sforzarti di trovare anche solo venti minuti al giorno;

– Per mangiare in modo equilibrato bisogna spesso programmare i pasti e magari cucinarli in anticipo, in modo da aver sempre qualcosa di sano già pronto e limitare così le tentazioni;

– Per diventare assertivi è necessario esercitarsi gradualmente fino a quando non si padroneggia l’abilità.

Si potrebbero fare decine e decine di esempi.

Quando in passato ebbi un periodo così negativo in cui non riuscivo quasi ad alzarmi dal letto se non per andare al lavoro, quando piangevo disperata prima di addormentarmi, per uscirne decisi di lavorare prima di tutto sul ripristino della mia energia psicofisica, che rappresentava la base senza la quale non avrei potuto compiere tutti gli altri piccoli passi che piano piano mi riportarono a uno stato di benessere.

Osservare le proprie emozioni, tutte quante!

Prendersi anche dieci minuti al giorno per chiudere gli occhi e osservare le emozioni e i pensieri che vanno e vengono è davvero fantastico. All’inizio mi sembrava davvero dura, poi a poco a poco è diventato piacevole. Esistono varie visualizzazioni guidate che aiutano molto. Vi consiglio il canale YouTube La Via della Consapevolezza

Fare spazio all’ansia, all’incertezza, alla rabbia durante una soleggiata giornata di primavera può scocciare a tutti, in un primo momento. “Ma perché devo avvelenare questa bella giornata, invece di cercare di essere felice?”, ci chiediamo. Eppure la tristezza, se accolta ed osservata come emozione a sé stante, slegata dalla causa che noi le attribuiamo, può regalarci grande pace e chiarezza.

Vi è mai capitato di sentirvi sopraffatti? Come ne siete usciti? Che azioni avete intrapreso? Condividetele nei commenti, grazie!

Chiara

Il corpo delle donne e la bellezza-potere

Il corpo delle donne e la bellezza-potere

 

Siamo nel 2009. Sono nel pieno dell’adolescenza, ho quindici anni. Il rapporto col mio corpo è altalenante. Passo le giornate a scuola indossando sempre il giubbotto, perché così mi sento protetta dai giudizi.

La sera ogni tanto accendo la televisione in cerca di qualcosa di interessante.
Una sera tra tante, mi imbatto in un programma. C’è un uomo vestito con giacca e cravatta che presenta una ragazza in costume, che non deve far altro che salire su una rampa per poi tuffarsi in acqua. La musica parte e lei comincia a salire.
Come ci saremmo aspettati, la telecamera la segue

Il fatto è che, mentre lei sale seguendo il ritmo della musica, il cameraman la riprende dal basso, direi quasi da sotto.

L’effetto è pornografico.

Rimango a guardare incredula, impotente.
Ogni tanto vengono inquadrati dei giovani uomini che si godono lo spettacolo a bocca aperta.

Ma ovvio! Cosa c’è di male in una bella ragazza in costume che fa un tuffo in piscina?
Assolutamente niente, vero?
Già.
E allora come mai mi sentivo indignata?

Intanto, in tutto questo, vorrei precisare che quelli per me sono stati anni difficili. Litigavo con la mia immagine molto spesso.

 

Industria del cibo vs. Settore estetico

Se l’industria del cibo propinava polpette ripiene di formaggio filante, patatine fritte, merendine ripiene di crema e cioccolato, gelati di ogni tipo, d’altra parte l’industria estetica mostrava di continuo corpi tonici, allenati, magri.

Pubblicità di cioccolatini, bibite zuccherate, dolciumi…Pubblicità con modelle magre, toniche, statuarie.

Non c’era forse qualcosa che mi confondeva in tutto questo?

Io, con i miei ormoni in subbuglio e i miei pensieri da adolescente, spesso mi sfogavo mangiando, per poi deprimermi quando la televisione mi ricordava che il mio corpo non andava bene così com’era.

Adesso, con l’avvento dei social network, non posso fare a meno di chiedermi: queste immagini continue – nelle pubblicità, nei programmi tv, nei film, nei video pornografici, nei video musicali, su internet– quali conseguenze possono avere sulla nostra psiche?

Ma soprattutto, come possono difendersi gli adolescenti e le adolescenti?

 

Qualche settimana fa mi è capitato di ascoltare delle ragazze lamentarsi del proprio corpo.

In un mondo in cui tutte o quasi cercano di apparire migliori, di truccarsi per far risaltare i tratti del viso, di mettersi i tacchi per sembrare più alte, di indossare reggiseni che comprimono e alzano il seno, io mi sono sentita spesso fuori luogo.

Ho ricevuto varie battute sul mio corpo.

Mi è stato simpaticamente detto che sono una tappa, una nanerottola.

Mi è stato chiesto “ma quanto sei alta?” con fare beffardo.

Ho assistito con disagio ad apprezzamenti sul seno prosperoso di alcune mie amiche/colleghe; mi sono sorbita commenti volgari sulle donne in televisione; mi è stato fatto notare che avevo un po’ di pancetta, che non mi vestivo bene, che non mi curavo abbastanza.

Per fortuna che tutti questi commenti non li ho subiti nella stessa giornata! 😉

 

Quel giudizio interiorizzato…

A volte ho immaginato di essere in una specie di ambiente dominato dall’occhio maschile, che ha il potere di promuoverti o bocciarti, guardando le tue caratteristiche fisiche.

Avevo pensieri di questo tipo sulle altre ragazze:

– “Tu non hai i lineamenti del viso perfetti, ma hai una quinta e sei abbastanza alta, meriti un 7.5. Promossa.”

– “Tu non sei molto alta e hai un seno piccolo, però ti curi molto, hai i capelli perfettamente lisci, porti i tacchi, ti trucchi e ti vesti in modo sensuale. Un bel 7.5. Promossa.”

– “Tu hai poco seno e le cosce grosse, ma sei abbastanza alta, hai un viso molto bello e ti curi, pur senza portare i tacchi e i vestiti corti. Un bel 9. Promossa.”

Ma qual era il mio giudizio su di me?

– “Sufficiente, dai. Un po’ insignificante. Direi uno scricciolo. Non fai niente per sembrare più alta, non ti trucchi, non migliori l’aspetto dei tuoi capelli. Sei piuttosto sciatta. Bassa, poco seno, cosce un po’ massicce. Porti sempre gli stessi vestiti insignificanti, le stesse scarpe basse.
Però, dai, non sei da buttare.”

Un corpo, nient’altro. Un corpo che fa cose.

Guardando i video musicali mi imbattevo in ragazze di straordinaria bellezza, donne che si imponevano per alcune caratteristiche fisiche: alcune avevano un bellissimo seno, altre erano alte e magre, altre ancora formose ma sode, quasi tutte truccate e ammiccanti. Tutte al centro dell’attenzione maschile, al centro della telecamera, riprese da dietro, dal basso, dal davanti.

Come se davvero fossimo tutte desiderose di questo, come il principe delle fiabe che tra tante ragazze ne deve scegliere una, la più bella.

Una specie di concorso di bellezza perenne, che incubo!

“Attenta, che quella è più bella, si prenderà tutte le attenzioni!”

Ogni tanto, pur avendo superato da un po’ gli anni adolescenziali, quando mi passavano accanto delle belle ragazze, le guardavo di soppiatto. Mi rendevo conto di guardarle con uno sguardo che mi era come entrato dentro e di cui non riuscivo a liberarmi. Le stavo votando, giudicando, sessualizzando io stessa.

Ecco, io non penso che sia solo un mio problema, in realtà. Ho avuto modo di constatarlo molte volte.

E ai ragazzi non va molto meglio, sicuramente.

 

Nel suo libro La naturale capacità di amare di M. Scardovelli, l’autore (giurista, psicoterapeuta e musicoterapeuta) affronta anche questo tema, contestualizzandolo nella società attuale.

 

 

La domanda giusta da farsi è: quali sono i miei valori?

La bellezza stereotipata che vediamo continuamente? L’ assenza di imperfezioni? O piuttosto il modo unico in cui sorridiamo, il nostro senso dell’ umorismo, le nostre capacità innate?

Vi invito, se non lo avete già fatto, a guardare il documentario di Lorella Zanardo “Il corpo della donne”. Si trova facilmente in rete. É di una veridicità disarmante e mostra senza pietà la pressione psicologica a cui siamo sottoposte giornalmente. 

Ma sta a noi scegliere di utilizzare la nostra mente per fini più utili.

E, vi garantisco, è possibile. Possiamo farlo.

 

A proposito, se vi interessa l’argomento, vi potrà interessare questo articolo: 3 consigli per distogliere i pensieri dalla bellezza

 

“Ho visto degli anziani che han degli occhi incantevoli,
e dei giovani che han degli occhi che fanno paura”.
Mauro Scardovelli

Ossessione per la bellezza: 3 consigli

Ossessione per la bellezza: 3 consigli

Nel mio articolo Il corpo delle donne e la bellezza-potere, ho raccontato alcuni pensieri che ho avuto in merito al mio corpo paragonato con i corpi delle altre ragazze.

Su internet vedo articoli e post che stuzzicano la polemica e che facilitano la presa di posizione da una parte o dall’altra; le ragazze che commentano in modo polemico certi post vengono spesso tacciate di essere invidiose della bellezza altrui.

Ma ci siamo mai chiesti come mai certi contenuti ci feriscano? Come mai la bellezza, l’apparenza, il giudizio degli altri ci ossessionano?

In questo articolo vorrei condividere tre consigli che mi hanno aiutata a superare il disagio di non sentirmi mai all’altezza.

1. Accettare di essere 40.

Ricordo che, durante il mio percorso di psicoterapia, a un certo punto venne fuori molto chiaramente la mia esigenza di piacere a ogni costo, di dare il cento per cento, di rimediare sempre ai miei errori e alle mie mancanze sul lavoro. Tutta questa pressione non faceva che creare tanta energia che mi intossicava i pensieri e mi faceva sentire impotente. Mi venne chiesto: “quanto pensi di valere in questo momento da 1 a 100?”

Risposi 40, e lo pensavo davvero.

Ciò che non mi immaginavo era che da lì in poi avrei utilizzato il mio stesso giudizio negativo (il pensiero di valere 40) per abbassare la pressione che io stessa generavo. Ogni volta che mi sentivo pressata dal desiderio di essere di più, o di valere troppo poco, mi dicevo “Sono 40, non possono chiedermi di essere di più. Posso rilassarmi. Partendo da 40 potrei anche diventare 60, ma vado bene anche se sono 40”. Lo stesso vale per quanto riguarda l’idea di bellezza. L’idea di dover raggiungere un modello, l’idea di potersi comprare dei bei vestiti solo se si è perfetti, di non essere abbastanza belli, è fuorviante. A volte è proprio liberatorio rilassarsi e dirsi: “sono 40, non posso e non voglio chiedere a me stesso di più”. E chiaramente questo non ci vieta di volerci bene, di mangiare sano e di fare movimento.

Giusto per chiarirci: l’idea di fissare un metro di giudizio da 1 a 100 è meramente simbolico e si trattava di un pensiero nella mia testa (che, in forme diverse, potreste avere anche voi): non voglio assolutamente dire che bisogna sminuirsi, ma che a volte persino un pensiero negativo può diventare un punto di partenza per accettarci e lasciare andare le aspettative esagerate nei nostri confronti.

2. Scegliere con cura il cibo mentale.

Se tutti i giorni ci guardiamo allo specchio in cerca dei difetti, se ci confrontiamo spesso con gli altri, se ci facciamo condizionare dalle battute, nei post sui social network, allora la nostra mente sarà portata ad ignorare il resto e a concentrarsi sull’argomento “bellezza”.

Ma se invece ci creassimo un ambiente pieno di attività che ci piacciono (oltre alle incombenze quotidiane, chiaramente), se ci dedicassimo alla cura di noi stessi e degli spazi che ci circondano, ad attività che ci fanno crescere personalmente e professionalmente, quanto spazio rimarrebbe per questi pensieri ossessivi? Ne rimarrebbe senz’altro meno, perché il nostro ‘cibo mentale’ sarebbe in tal caso costituito da altri contenuti, pensieri, interessi. Scegliamo allora con cura ciò che leggiamo e guardiamo, le attività che svolgiamo, le persone con cui usciamo.

3. Imparare a relativizzare ciò che vediamo e sentiamo.

Dato che la pressione per essere esteticamente attraenti è tanta e molti non la tollerano, sono tante le persone, soprattutto donne, che scelgono di concedersi un’operazione chirurgica. Molte di quelle che non si sottopongono a nessuna operazione postano foto con filtri di bellezza o in pose ammiccanti che fanno sembrare il proprio fisico simile a quelli che consideriamo perfetti. Questo significa che non possiamo considerare reale tutto ciò che ci viene mostrato. Anche le tipiche “battute da bar” tra uomini vengono fatte spesso ricalcando ciò che nella nostra cultura ci si aspetta di sentire da loro.

L’attrazione non dipende dalla perfezione estetica. Non solo, perlomeno. Pensiamo a tutti quei personaggi che hanno saputo ammaliarci senza essere esteticamente perfetti.

Tirando le somme, la bellezza non possiamo sceglierla. Possiamo scegliere però di sviluppare il nostro potenziale, di tirare fuori le nostre qualità e di coltivarle: il nostro fascino deriverà da questo.

Per esempio io, quando danzo, disegno, leggo, ascolto la musica, smetto di pensare a tutto il resto. Possiamo scegliere di non dare energia a certi contenuti, risparmiandola invece per qualcosa che ci rende più felici. Come consiglia anche Andreo Giuliodori, fondatore di EfficaceMente.com, una bella “dieta mediatica” a volte è quello che ci vuole.

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