
Capitalismo e frustrazione
Questo è ciò che chiamo un articolo di sfogo, di denuncia.
La produzione sembra essere il fulcro dell’esistenza. Quaranta ore settimanali che siamo costretti a trascorrere al chiuso, con persone che non ci siamo scelti.
A cosa serve sfogarsi? Concretamente a niente, vero? Eppure per me è un processo di disintossicazione. Cerco di non giudicare ciò che mi viene in mente, sono solo pensieri.
La scrittura mi è sempre piaciuta per questo, perché in un certo senso significa dare vita a ciò che si ha dentro, poterlo osservare così com’è, senza altri scopi se non quello di lasciare andare qualcosa che c’è e che non vuole uscire perché fa paura.
Questa che riporto qui sotto è il mio flusso di coscienza relativo alla mia esperienza di qualche anno fa come apprendista, in una realtà che si inserisce nel contesto più ampio del capitalismo odierno, che obbliga tutti a correre, a produrre, ad affrettarsi: concorrenza, profitto, ansia.
La giornata tipo di molti lavoratori
Mi alzo, maledicendo la sveglia. Gli occhi mi fanno quasi male dal sonno. Mi sento stanca, stordita, come se non fossi pronta. Per fortuna la sensazione delle occhiaie doloranti lascia piano piano il posto all’ energia vitale.
Mi ritaglio del tempo per me stessa di prima mattina. Faccio un po’ di esercizio fisico, oppure mi esercito con una lingua straniera, faccio un esercizio di rilassamento, a volte scrivo qualche pensiero sul mio diario.
Parto, metto la mia musica preferita e mi immergo nel traffico mattutino. Si sta bene, il sole illumina gli alberi che danno sulla strada. Ogni tanto sogno di poter cambiare tragitto, senza avvertire nessuno, e poter andare in altri luoghi, con il venticello mattutino che mi accarezza.
La giornata inizia, alienante, piena di persone che non hanno tempo di starmi dietro.
Se chiedo qualcosa che non ho capito, probabilmente per loro risulterò un peso.
Meglio stare zitta e occuparsi delle scartoffie. Mi occupo delle mie perlopiù noiose mansioni, mi prendo le critiche su ciò che sbaglio.
Guardo l’orologio, avrei bisogno di una pausa; il telefono squilla ma non mi va di rispondere, vorrei solo che smettesse subito di fare rumore.
Inserisco dati nel gestionale. Continuo a inserire dati.
Il tempo che passa lento
Le prime due ore non sono neanche male, ma otto sono decisamente troppe. Ogni tanto capita qualche diversivo, qualche mansione più stimolante, che mi fa sentire utile, ma in fin dei conti sono sempre i superiori a decidere quali saranno i miei compiti.
In alcuni giorni non proferisco parola con quasi nessuno, ma continuo a inserire dati, interrotta solo dal telefono. Avverto poca passione in ciò che faccio, poco entusiasmo. Mi sembra di sprecare il mio tempo, ogni errore mi sembra l’ennesima prova di non valere abbastanza.
Non c’è tempo per insegnare il mestiere: lo devi imparare da solo
Sento l’impulso varie volte di chiedere chiarimenti su qualcosa che non ho chiaro, ma mi blocco e mi autocensuro.
Vado avanti, sperando che non accadano cose impreviste che mi mettano a disagio, come gli urli in faccia da parte del titolare.
Urla agli operai che sono troppo lenti, mi urla che non sono utile in azienda, che dovrebbe prendere un’altra ragazza. Mi dice che devo essere veloce, sono troppo lenta. Mi ordina di portargli un caffè. Mortificata, penso a tutto il tempo che vorrei dedicare a me stessa, penso al fatto che forse quello non è il mio posto.
Stremata, arrivo finalmente al pomeriggio. Torno a casa, mi sento stanca, con un po’ di impegno riesco a evitare di abbuffarmi per dar sfogo alla frustrazione. Il cibo è lì, a portata di mano, pronto a farmi dimenticare la frustrazione di non riuscire a esprimermi.
Tutto questo genera anche senso di colpa ed esaurimento
Quante energie rimangono dopo aver lavorato in un ambiente tossico?
Cerco di volermi bene.
Il tempo è limitato, è quasi ora di andare a letto. Il giorno dopo ricomincia tutto, e il giorno dopo ancora ricomincia tutto. E ancora, ancora.
Arriva il fine settimana e forse, se sono riuscita a mettere dei confini tra i miei bisogni e quelli degli altri (ma non è scontato), mi prenderò del tempo per me stessa, per ricaricarmi, sperando che la settimana dopo sia migliore. La domenica sera, sempre se sarò riuscita a ricaricarmi, andrò a letto rilassata.
Il giorno dopo tutto riparte.
Ci sono giorni in cui avverto già di prima mattina la voglia di piangere. Altre volte mi rendo conto di sentirmi inadeguata, disinteressata a ciò che sto facendo.
Se sei l’ultima arrivata, ti muovi nella realtà aziendale con titubanza e timore. Quel senso di inadeguatezza riaffiora e senti che ti dice: “Non ce la fai. Non ci riesci. Non sei abbastanza sveglia”.
Chiedersi se sia questa la vita che vogliamo
Eppure, in fondo, io l’ho sempre saputo che il mio lavoro ideale non era un lavoro d’ufficio, ad occuparmi di scartoffie. A me piaceva molto l’idea di poter rendere gli altri felici, oppure di esprimere la mia creatività.
Mi sento come se fossi in un pianeta di marziani che non hanno sentimenti, intrappolata in questa realtà che non mi appartiene.
E non so come uscirne, è come se ci fosse un tunnel davanti a me: io lo vedo, ma so che è lungo e non ho la certezza di trovare qualcosa di migliore dopo che lo avrò attraversato.
Così rimango in questo mondo di alieni, alienante. Un pesce fuor d’acqua, una di quelle che viene considerata rincoglionita, svampita, con la testa tra le nuvole.
Io ci ho provato ad essere come gli altri, mi sono impegnata. Eppure a volte si fa strada il pensiero che io abbia sbagliato tutto. Non ho seguito ciò che mi faceva battere il cuore, ho preferito adeguarmi alle aspettative di non so chi.
Si tratta di uno sfogo, non tutti gli ambienti di lavoro sono così
Questo è un articolo di sfogo per tutte quelle persone che, almeno in un periodo della loro vita, si sono sentite incapaci, nel posto sbagliato, frustrate, mummificate in un ruolo che non gli apparteneva. Nel mio caso specifico, si tratta di una esperienza passata (per fortuna), ma so che purtroppo molti ci stanno passando adesso.
C’è speranza per tutti, perché la speranza inizia davvero da dentro. E mi sento meglio quando penso che non sono il mio lavoro, sono anche altro. Gli altri non lo sanno cosa ho dentro, vedono una piccolissima parte di me, forse la parte ‘sbagliata’, quella che mi fa apparire inadatta, incapace.
Se volete condividere le vostre esperienze, scrivetemi nei commenti o alla mail chiara@pioggianellanotte.com. Sarò felice di leggervi.
Chiara